Porta il Bianco

Notte, fredda come dev’essere. In piedi, noi pezzi suoi, coi piedi sopra i piedi dell’altro e il naso perso qualche piano più su. Un pensiero, un pensiero come quello di libertà di un detenuto. Pesante. Leggero. Necessario. La forma della rotonda Foschini riporta alla pace, al tormento del qui e ora. 

 

Il pavimento puzza pure meno e le nuvole emiliane sembrano addirittura più vicine, cosa peraltro inutile perché le nostre teste vogliono restare poggiate qui giù, mischiarsi i capelli, sentire che pulsano nella stessa umidità che riempie i fossi delle campagne lunghi chilometri. Il pensiero si accorge ben presto del disturbo dell’ingombro che le mie scarpe arrecano su un pezzo delle tue ma non si lascia disturbare. Continua a fare quello che stava facendo. Immagina il bianco. Non il bianco della luce dei lampioni, non quella del sole quando è di grazia, non il bianco del bucato fresco appeso al vento. Il bianco dentro, che forse non è solo un pensiero, è un desiderio. Un progetto.

 

Un giorno ti inviteranno a una festa, sarà la tua e sarai tu ad invitarti. Quel giorno avrai un bianco che finisce solo dove finisci tu, e sorridendo non ti riconoscerai, e spogliandoti non ti riconoscerai e premendo i talloni sulla schiena di un uomo piangerai e riderai. Di bianco. Qualunque faccia ti era sembrato che avesse il tuo prossimo destino, beh non è quella. Accetterai le sue rughe e i suoi difetti, la sua stanchezza. Persino il suo nero. Sei ancora sdraiata e lacrime scivolano leggere. Col bianco si regge questo nero, tutto questo nero che impregna il dappertutto, che si infila nelle fessure che solo noi sappiamo veramente.

 

Notte, l’arancione che ci investe è dei lampioni. Semafori inutili, con un gessetto sulle strisce pedonali disegniamo un sorriso a tre denti e un dito medio. Ti stringo, ad ogni passo, il fianco. Perché il tempo è tiranno e so di aver perso in partenza. Ma mi prendo comunque quel che è mio. Il pensiero. Necessario. Che queste suole che continuano a strisciare per Corso d’Este avranno un senso. Vere o finte che siano. Dopo aver letto tutte le scritte sui muri del giardino botanico e rifiutato gentilmente una dose da un ragazzo cadaverico. Dopo aver invocato invano la luce naturale di una stella e una panchina non bagnata o sporca. Dopo averti cantato qualcosa senza senso per un sorriso e per sparare a volontà sulla mia dignità. 

 

Quando con le labbra umide di birra e la barba in disordine abbasso il naso in una scollatura che prima non c’era. Buio. Andiamo via. La tua forma orizzontale riporta alla pace, magari temporanea, non nel mondo e nemmeno nella provincia, ma guarda qui: in questi occhi di buio, pieni di zero, di cristallo non ancora riparato. Qui la porta. Corriamo verso il niente e quando troviamo di meglio fermiamoci, un morso al mento, la mano regge il collo dalla forza dei baci. Non ho niente da dare, non so come si chiama e neppure finché dura. Probabilmente dura poco perché sono specializzato in disastri. In quel poco c’è il molto che posso. Col cuore non so risparmiare. Non basta ma è questo. Sono a corto di messaggi promozionali, di forze e di sogni. Non farebbe differenza per una come te. Ma se guardo verso su e ti stringo la mano vedo che c’è del bianco anche per me.

 

Accettami come un difetto, come una notte fredda senza luci col colore naturale. Andiamo via. Senza promesse, solo per andare. Perché stare fermi non cambia comunque nulla. Per un po’ di calore a cui troveremo un senso mentre diventa sempre più forte e viaggia, Non fuori, dentro. Lo vorrei ascoltare sul tuo petto con la testa che non tiene più il conto dei battiti. Magari ci sei. Poi non ci sei. Chissà a cosa pensi. A quello che ti basta, a quello che puoi accogliere, forse. Ma guardami nella stanza buia. Fallo, lo sento ugualmente. Come sento le nostre guerre separate che non hanno trovato ancora un armistizio. Tu guardami. Solo così dormiremo, alla fine. Le mani scivolano sulla tua schiena. Trovano i gancetti. Fatti liberare. Guardami ancora. Non ti vedo ma sento gli occhi, il respiro. Scendo su te ed è bianco, coincidere nel nero su nero. Un po’ di cuore sconosciuto spremuto, della cura, mani che non si danno pace. Filtra la luce della luna dalle imposte, la gioia cammina piano. Questa è fantasia spregiudicata, è un banale testo su carta, è follia, è esagerazione, è impossibilità. È così. Ma tu guarda ugualmente, se vuoi. Fino a questa notte.

 

Domani in agenda ci sarà di nuovo l’appunto “ricomincia da oggi”. Tu porta il bianco.

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