Venti venti e dammi il cinque. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe davvero uscito dai film di fantascienza che guardavamo da ragazzini. Un anno lontanissimo arrivato prestissimo, un’autostrada vicolo cieco con ai lati un mondo piegato dalla velocità e seminato di plastica abbandonata. Anche persone. Non ci appartiene più, a destra o a sinistra. È passato ad altre mani, insieme a votazioni irrilevanti e a notti sempre più timide. Le canzoni indecifrabili e le abbreviazioni in chat che sostituiscono abbracci vivi che odorano esattamente come i maglioni. Tutto ufficiale, tutto pubblico, tutto un lancio di qualcosa, tutto un successo e tutto veramente poco, a restare. Un nuovo anno senza che esista il tempo, come una medaglia senza la sua gara. Un osservatorio spaziale in più, i cani sempre più magri per le strade felici e senza controllo.
Duemilaventicinque altro che ripassino, la storia è quella, la sai già anche se non vuoi crederci. Tiro dopo tiro, di sigaretta e di lenzuolo. O tirare in caso di pericolo. Puoi cambiare sempre qualcosa, uno scricciolo di vita. Passare inosservato a testa alta e farti bene mettendoti in circolo un pezzo di vita qualsiasi. Ogni anno tenersi più forte, questo l’hai capito anche se non lo dicono i telegiornali. Qualcuno lo scriverà anche nella metro di Kiev. Nella nuova opera di Banksy un bambino andrà riprendersi il palloncino prima che venga bucato da qualche missile destinato a un ospedale pieno di civili già a pezzi, semplicemente programmato male.
Un anno al massimo, ti auguro il meglio ma paga tu, un anno tutto storto qui dentro dove non vedi e non cerchi. La mia anima spalmata su nemmeno so cosa. Un anno di velo di carta, un origami che si può ancora strappare. Una risacca non sempre gentile però tu sorridi che qualcuno ti sta guardando. Si fa quel che si può, scusami, ti scuso. Ora però l’orologio segna l’ora di andare. 2025. Devo andare da quello che sono e fare un po’ quello che mi pare. Anche se fa male, anche se non spiego e neppure nego, anche se questa felicità è asintomatica fatta di microscopiche cose che solo io vedo e poi spariscono. E te, fai te. Due ore in bagno per farti bella, magari. Tanto il tempo non esiste. Aspettavo una tua parola un giorno feriale qualunque, una qualsiasi nemmeno quella giusta. Quando le altre labbra erano in fila per assaggiarmi, belle e normali, avevo paura di aprire e volevo parlare. Toccare con gli occhi, lacrimare leggermente con tenere confessioni.
Siamo fatti per questo, invece, anni e silenzio. Pane, poesia, macchiare le lenzuola fottendo. Scusa non ho sentito, non capito, non sono stato. E chi lo sa e comunque a poco servirebbero le spiegazioni, no? Parole non richieste, silenzi desiderati o tutto il contrario. Aspettare, siamo fatti per questo. Fino all’ultimo. Dunque tutto regolare. Da questo lato masticare amaro o gourmet. Senza prendere a prescindere come i cellulari. Dall’altro lato non ho sentito, non ho capito, non ho aperto. Che Dio ti benedica. Sarà un anno diversamente uguale da tutte le parti o almeno nella nostra nazione. Ha detto il presidente che ci stanno lavorando.
Un’ultimo abbraccio a chi mi legge, a chi mi crede, a chi è oltre e già gioca con i pacchi di roba da realizzare. Ogni tuo sogno è un mio sorriso, non perdere il tuo palloncino. E poi, buon anno ai cani sempre più magri liberi per la città, che non rispondono a nessuno e non hanno bisogno di abbaiare per farsi notare. Che andranno sempre, sotto o sopra per un boccone che sarà un altro chilometro. Occhi docili, sempre pronti a un gesto caro. Sempre pronti a lasciare tutto, senza perdere niente, sempre pronti a tornare nel posto giusto, nell’abitudine di una tempesta scampata e di una vita corta e imprevista. Quest’anno sarà vostro. A presto, è ora di andare a riempire le nostre strade, a guardare le stelle fingendo che qualunque anno sia sempre così possa restare.