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But nothing

Entrò nell’ascensore vuoto, stanca di non poter cambiare, con occhi senza un altrove. Un pensiero sì, c’era, solo, da non dire. Sfiorò il tasto 3, in rilievo per i non vedenti dell’amore e e per quelli di ogni cosa. Come avrebbe voluto sfiorare allo stesso modo i contorni in rilievo di quel pensiero. C’era soltanto la sua presenza silenziosa, un grande specchio e un vuoto che finiva su una superficie molto calpestata. I suoi occhi baciavano la polvere sopra le scarpe. In fondo, lì dentro c’era tutta la vita che era anche fuori. Più un pensiero.

Quasi il set di un film russo. Non un pensiero appassionato il suo ma vivo di vita propria, slegato dalle radici della realtà di provincia e libero dallo scopo di diventare gesto. Neppure un pensiero desiderato, forse neppure verosimile. Né un sogno, né un’illusione. Qualcosa che dura di più: un desiderio non ammesso, come un delitto, destinato a rimanere irrisolto come quelli in cui si trova la vittima ma non il movente, l’arma del delitto e soprattutto il colpevole.

Nella vita si aprono le porte, i portoni e anche le porte scorrevoli degli ascensori. Così uscì. Con lei il pensiero. Trainato da due spalle fiere leggermente curve per la stanchezza accarezzate da ciocche di capelli trattati con un colore di seconda scelta. Verso uno snodo, un culmine, come si aspettano tutti gli altri pensieri e come puntualmente succede. Ma non arrivò. Il caffè preso al bar di fronte alla libreria non poteva dirsi un traguardo appena a metà mattina, nel chiasso delle stoviglie e in quello del traffico che si riversava sino al bancone. Senza zucchero. Come sempre. Le belle abitudini sono bellissime, ti aiutano a pregustare le gioie. Certi pensieri sono belle abitudini che ti ricordano la gioia del prossimo ricordo. Effettivamente il fondo della tazzina non aveva più nulla da suggerire, pagò il conto e fece fare un giro al foulard. Un’occhiata al solito posto, gli angoli sporchi della città sono libri aperti per chi sa leggere. Se ti fermi. Anche se non hai tempo. Torna un pensiero, tra tanti.

Lei è in un ascensore che sale, sale sempre. Sessanta piani anche se il palazzo ne ha sei. L’ascensore si ferma prima che sia troppo alto per vedere tutti i condomini, i rioni, le frazioni, i campanili e i frutteti, le piazze e i muretti a secco che delimitano campi ormai incolti. Rivede la sua giovinezza semplice, le strade asfaltate di recente e le nuove costruzioni, l’area dei casotti del mercato del pesce che non c’è più. Passato e presente. Allungando lo sguardo riesce a notare il palazzo dove abita ora con la sua famiglia. Tira fuori il cellulare e scatta una foto. Ma è troppo in alto, è un puntino. Ecco quello è il futuro, pensa. È casa, ma non si vede bene. L’ascensore precipita nel vuoto come se dovesse schiantarsi a terra, potrebbe davvero essere tutto finito. Invece è solo un pensiero. Si gira dall’altra parte ed è sempre Palermo nel suo splendore consumato. Solo un pensiero, il futuro. Sarebbe una bella abitudine se non cambiasse così spesso.

Siamo noi a non cambiare. Il caldo strangola le vocali, ingigantisce un’isola da percorrere con amore e passato, rimpicciolisce le vie di fuga per la stanchezza. Siamo sempre noi all’ultimo piano di qualcosa, con un grande specchio che mostra i segni peggiori e non le cose migliori che hanno causato quei segni e della polvere di chiunque da sottovalutare. Stagioni e mezze stagioni, senza o con, cambiamento contro un “vedremo”, andare contro restare, sperare contro mollare e andare avanti. Siamo noi a cercare, ad approfittare e a cambiare il corso del presente appena nato. A dire “no” agli stop urbani e sì agli scali internazionali. Lo sa ma non vuole saperlo.

Avrebbe due frasi per dire ma le tiene per pensare, è fatta così. La sua passeggiata mentale è tutto un passo verso l’apocalisse del pensiero standard, vuole sentirsi in alto. Più in alto. Vedere, capire, farsi prendere dai pensieri. Da un pensiero alla volta. Da quel pensiero. Farsi possedere, colpo dopo colpo, sino alla stanchezza massima. È lunga la via dei platani, il venticello è cordiale. La pelle delle gambe ringrazia. Le pasticcerie sono stracolme di cannoli, un odore indefinibile di vecchio e di mare ai bordi delle strade. Sembra il set di un film italiano. Sta tornando, è stata una giornata intensa che diventerà inconcludente. Stanca, moderatamente consenziente col presente. Abituata a vivere al plurale, pensare plurale e sentirsi al singolare. Solo un pensiero lungo il ritorno, che un giorno un nuovo futuro coincida con il caso e la fortuna del merito. Per uno snodo, un culmine. Ma ora, ora niente.

Mille solitudini

Siamo esposti, siamo troppo esposti e pure troppo insfiorabili. Ci baciamo solo con mille solitudini.

Non sono in classifica, non sono in cima da nessuna parte tipo liste e desideri, non sono pieno, agevolato e raccomandato, non sono il preferito, non sono al centro. Sono un lavoro duro iniziato e non ancora finito, non sono uno di quelli belli senza sforzo, di quelli pronti ad andare, sono uno di quelli che si mettono a repentaglio, che aspettano che succeda per dire “lo sapevo”, che perdono solo per vizio, che se parlassero, se, magari si ascolterebbero. Uno in bozze, uno di quelli che non si sono mai incontrati e vagano attraverso le vite degli altri in cerca di sé.

Vorrei essere come la lingua italiana che riempie di sfumature, che puoi dire la stessa cosa in mille maniere, ed invece, c´é un Fabio ad una maniera sola, imparata ad essere  e incorporata. Un prendere o lasciare. Vorrei essere mille scatole cinesi e tenere l´ultima per te. Invece sono per tutti, di tutti e terra di nessuno. Io sono per te proiettile che ti lacera desiderando essere la medicina nelle tue mani. Sono trasparente e se mi guardo dentro le cose spariscono tutte, mi lascio oltrepassare da tutto come un bambino, e cambio, con la trasparenza del cristallo e la sua fragilità.

Sono quello che arriva solo a metà, che si dimentica di sé, che spera sempre più di quanto deve, che supera i limiti nel pensiero, che si ferma per pensare. Che chiede e chi mai risponderà. Son tutti alle prese con sé stessi, a lavorare sull’incompiuto, a ignorare senza doversi spiegare, a tappare le orecchie quando si chiede aiuto e a suonare il campanello quando gli serve.

Siamo della stessa marca. Vorremmo che la vita pesasse di meno o vorremmo più forza. Vorremmo il segreto per capirci, per raschiare il fondo delle anime come si fa con il dolce ed essere pieni, con la pancia dell´animo pieno. Vorremmo problemi meno feroci, vorremmo persone che non si adattino a quei problemi feroci diventandolo essi stessi. Vorremmo pause in cui scoprire. Siamo biglie in discesa, ci rimane il percorso, il percorso é tutto quello che abbiamo. Siamo un attimo prima di farcela, il vento che non può spostare le orme sul bagnasciuga e allora sposta le onde per cancellarle. Siamo cuori a dieta.

Noi ci annulliamo, ci ritroviamo sempre in ritardo con niente da dire con gli anelli in mano e i sogni morti in cuore. Siamo quelli su cui cadono addosso sempre gli stessi colpi. Un confronto dentro a un ring mentre ti ripeti “non fa male, non fa male”, rotti, rotti, da riparare e non da rifare. Giriamo con quel mai appiccicato sulle spalle che non ci prendiamo da tanto e gli occhi dicono “forse” a occhi sbagliati e i “perché” devono essere zittiti. Passiamo tutto quel tempo a cercarci, che stanchi, il tempo restante ci sostituiamo. Ci rigiriamo le vite senza idee in cerca dell´ispirazione come fossimo una poesia da scrivere, cercando di spogliarci senza capirci, di non sentire per un attimo i vuoti, travasarci incomprensioni. Passiamo dal tatto per arrivare ai pensieri, ci portiamo le parole da lontano, parole di qualcun altro, cambiamo le preferenze, ci adattiamo per sopravvivere. E torniamo sempre come l´inverno.

Ma adesso basta, io odio questa scrittura. La odio talmente tanto che la amo. La odio per gli stessi motivi per cui la amo, perché mi salva, perché mi costringe a dire chi sono a me stesso e chi vorrei essere. La odio perché sono ripetitivo e parlo di te, di lei, di gente che non esiste. E noi non possiamo vivere ugualmente condensati fuori da queste righe, non siamo così leggeri e disinvolti. La odio perché mi capisco, mi rammarico e mi perdono. La amo e la odio perché torno a te, senza toccarti, senza investirti come vorrei. Questa scrittura é lo specchio di mille solitudini che non incontrano le tue.

E tu, anche tu sei come mille solitudini, e io ne amo una. I nostri ieri ce li restituiranno maltrattati e consunti. Che importa ora che lo sappiamo. E certi dolori cadranno all´insú dal cuore al cielo, persi e imprigionati, in mezzo al niente che hai dentro al petto. Mille e una solitudine.

Fabio Pinna

 

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Sola.

Per una volta avrei dovuto accontentarmi della definizione che il mio cervello era disposto a darmi invece di cercare tra gli strati della membrana che proteggevano un cuore, il suo. Era solito stare in equilibrio su un filo di pregiudizi, sdraiarsi all’ombra dei sorrisi che regalava e rinfrescarsi con le sue stesse lacrime. Non so perché lo feci. Non so cosa mi spinse ad aprire la porta di casa per andare al parco, dirigermi verso la sua panchina, sedermi accanto a lui e dirgli:

– Sono sola.

Accolse quella mia fragile confessione con un torrido silenzio.

– Sola, senza una “E” finale che mi faccia brillare, senza una “A” centrale che mi faccia sentire lo scontrarsi dei passi danzanti di una coppia di innamorati. Sola, con una “O” centrale e una “A” finale. SOLA, talmente sola da non essere degnata nemmeno della compagnia delle parole, perché non ci sono nemmeno sul dizionario, c’è un “SOLO”, ma quello non sono io, io sono “SolA”, come il fiume dei Beschidi. Se solo fossi stata un “SOL”, così da aver l’onore di far vibrare milioni di cuori introducendomi silenziosamente tra le righe di un pentagramma. Se solo fossi stata un “SOLstizio”. Sarei stata sempre in eterna attesa della mia gemella diversa, sarei sempre stata in attesa di qualcuno simile a me. Avrei potuto essere qualsiasi cosa…

– …eppure, hai scelto di essere sola. – continuò lui rilasciando un lungo sospiro, mentre sulle sue labbra si era posata l’ombra di un sorriso.

– Esatto.

– Non so sinceramente quanto sia esatto ciò che stai dicendo. La solitudine è uno stato d’animo creato dall’essere umano. La Natura e l’Universo la rifiutano. Hai mai visto una cellula o una molecola lavorare in solitudine, creare qualcosa, in solitudine?

– Cosa c’entra? Io non sono né una molecola e nemmeno una cellula, sono solo Sola, capisci?

Mormorò: “ Sei appunto un ammasso di cellule, molecole, nient’altro.”

Lo guardai come offesa, mentre tirava fuori dalla tasca una penna e un foglio.

Scrisse in stampatello “SOLA”.

– Conta.

– Cosa dovrei contare? – gli domandai.

– Conta le lettere che formano questa parola.

– S, O, L, A. Quattro lettere.

– Sì, quattro lettere sempre pronte a farti compagnia. Vedi, quando senti che la solitudine sta inghiottendo il tuo mondo, tu prendi carta e penna e ricordati che non sarai mai sola, perché avrai queste quattro lettere disposte a farti compagnia. Scrisse sul foglio diverse parole “FELICE, SOGNATORE, SORRISO, ABBRACCIO”.

– Ecco, queste sono le parole che mi ricordano che non sono solo. Ciò che appartiene al mio carattere mi difende dai continui attacchi di mille solitudini del mondo.

Abbassò lo sguardo ed iniziò a fissare l’asfalto.

– Ti rendi conto che ci vogliono miliardi di frammenti di bitume per creare questo asfalto, per creare un’unica cosa indivisibile come questa? Non basta una persona per creare l’emozione del vivere, la gioia, la felicità, e perché no, la tristezza, la nostalgia, tutto ciò che ci rende umani, ne servono tante, o meglio dire, servono le persone giuste, quelle che sanno creare quel forte e resistente asfalto separato con un umile apostrofo da un qualcosa che lo determina, che lo rende unico al mondo: il suo articolo determinativo. Senza il suo articolo sarebbe una delle tante definizioni teoriche, vive solo nei libri, invece no, quest’asfalto, il tuo asfalto vivrà nel mondo perché è stato creato unendo particelle di caratteri simili e diversi.

Tu non sei sola, tu sei “LA SOLA” che può salvarti da questo tuo attaccamento ad un qualcosa che non deve esistere in un cuore che batte vita. Tu sei l’articolo determinativo che manca alle tue giornate, al tuo futuro. Mille solitudini da far incontrare.

Emel