Ricordati di me #2

Aspetta. Hai letto l’inizio della storia? Prima di andare avanti nella lettura leggi la prima parte di “Ricordati di me”.

Poi un giorno lo fece: ricordarsi. Di quello che c’era prima di Diego, delle luci, del sapore dello zucchero filato di quand’era bambina e le si incollava ai denti. La freschezza, ecco cosa mancava. La freschezza lieve dell’aver vent’anni e i sogni tra i capelli e nessun amore – ché l’amore, poi, è un’ipoteca sulla vita, qualcosa che non finisci mai di pagare e ne valeva la pena, poi? Di tornare dal Giappone con un trolley claudicante per guardare in faccia Torino e pensare: anche quest’anno non sono riuscita a salire sulla mongolfiera. Vivo qui da sempre e non ho mai visto la Mole dall’alto se non quella volta, dalla terrazza della mia amica, come si chiamava?, Veronica. Non era dall’alto sul serio, però. Erano al tredicesimo piano, Erica e Veronica, ventun anni a testa e dei dread verde scuro sotto i capelli. L’avevano vista da un’angolazione strana, la Mole. Un po’ di sguincio un po’ dall’alto. Un po’ come vedevano tutto il resto, i giorni all’università, lingue orientali e l’assistente carino di filologia. Quanti anni aveva Diego, allora? Dov’è che andava a consumare le sue giornate? Esisteva già, quel piccolo bar in corso Vittorio, con le lucine accese tutto l’anno come fosse sempre Natale e quegli strani divanetti con le bruciature di sigaretta?

Un giorno lo fece: pensarsi i capelli, gli occhi, le mani così com’erano diventate. Giovani, eppure già vecchie. Quei capelli…da quant’è che non li lasciava sciolti? Gli occhi! Quegli occhi erano così belli, con le venature di matita nera, un filo di mascara, nessuna lacrima a piegarle le ciglia. Le sue mani. Aveva imparato a memoria il corpo di Diego e non era servito a niente perché nel cuore, dentro il cuore, non era entrata mai. A volte ci nuotiamo attorno, con la paura di trovare quel che cerchiamo o anche solo di perdere regole e farne di nuove, come persone, posti, marca di deodorante. Viviamo vite scandite da regole che qualcun altro ha imposto per noi e poi siamo sinceri, a volte noi stessi ce ne sobbarchiamo di nuove per inutili ragioni che non siamo capaci di spiegare razionalmente.

Però c’è una regola che è piuttosto vera: più le cose sembrano difficili più la soluzione è semplice. Il percorso per giungervi eppure è faticoso, non è lineare come dovrebbe. Allora diciamo che siamo a portata da una soluzione semplice ma sorvoliamo intenti a cercare dalla parte sbagliata. Ecco, siamo nella norma. Torino sa essere fredda ma anche accogliente. Il Po e la Dora portano vita da lontano e non importa quanto le acque possano essere talvolta sporche, c’è sempre chi si ferma, chi ci corre affianco, chi ingrassa le papere e chi si concede ad esse seduto su una panchina di qualche parco. Aveva ripreso a spolverare e pensare, quando era dentro pensava al fuori e quand’era in giro pensava al soggiorno da sistemare e i libri da spolverare e per carità controllare la cappa, quella fetente. Non c´era niente in lei che non andava.  Andava tutto bene. Un respiro, andava tutto bene. Ma lei sapeva. Sapeva che lei non c’era davvero, perché non era al posto giusto.

E ci nuotava attorno sperando di farsi notare e di saltare dalla domanda alla soluzione, così come i bambini, con leggerezza e verità. Leggerezza, diceva. Il Giappone era confortevole e rispetto a Torino c’era evoluzione in atto ma si potevano vivere i ritmi creativi di un´altra epoca senza dover fare troppi sacrifici. Aveva iniziato a scrivere per esempio, e il silenzio e la comodità della metropolitana glielo consentivano, ma anche a cucinare attraverso un corso organizzato dall’azienda come premio per le donne più produttive. Così, per provare più di un uovo fritto, ed era fantastico. Una volta era entrata in biblioteca e si era persa, e a parte la brutta figura, decise che avrebbe corso il rischio di riperdersi. Perché era pulito, accogliente, ‘cerano dei prodotti tipici freschi al posto delle macchinette italiane e potevi vivere là dentro e vivere bene. Era magico.

Alle volte dobbiamo superare i confini per comprendere altre grandezze. E lei li aveva superati, ma solo quelli geografici. Restavano quelli della vita, quelli che sembrano separati dalla fantasia.

Un giorno lo fece: si vestì di tutto punto senza avere appuntamento. Doveva prima di tutto sentirsi bella per fare quello che stava per fare. Si era fatta dare il numero di Guido da un amico di un collega e ora il telefono squillava.

– Pronto?

– Guido?

– Sí, chi parla?

Si era studiata decine di volte quella chiamata cercando di prevedere ogni risposta per indirizzare l´argomento dove voleva. Un po´come il senso unico della Dora e del Po. Non importa che le acque fossero torbide e si mischiassero.

– Sono Erica, ci siamo incontrati qualche volta giù a Settimo dove si mangia il polletto. Ricordi?

– Ciao Erica, certo che ricordo. Come stai? Avevo saputo che eri partita.

Certo che ricordo. Certo che non mi scordo, avrebbe voluto dire. Certe persone sanno come scassinarti il cuore ancor prima che ci siano, che restino. È un’arte forse, pensava. Ad ogni modo lui la stava aspettando. Non che fosse sicuro di un suo arrivo, lui stava aspettando una ragazza così. Una come un´iceberg, con tutto quanto da scoprire e concesso solo a pochi. Una che la bellezza é il suo scomparire, la sua insicurezza, le poche parole e gli occhi che brillano mentre si parla di viaggi, di libri. Una che non é una strada sola e ti ci puoi benissimo perdere.

– Sí, son tornata da due mesi ormai. É stato unico. Senti io son qui in soggiorno vestita per andare. Volevo chiederti una cosa.

– Dimmi.

– Mi porti in Giappone?

Certe cose succedono solo nei film, finché non succedono anche nella vita. Diego era stato toccato, ecco, toccato. E forse era pronto a farsi investire forte con tanta disinvoltura, a farle trovare il suo posto giusto. E niente avrebbe avuto importanza se lei avesse trovato il posto giusto e lui avesse trovato lei.

– Ti porto in Giappone.

– Per sempre?

– Ti porto in Giappone finché lo vorrai, fosse anche per sempre.

Lei pianse, e tra tutte le cose che poteva dirgli disse:

– Ho tenuto una valigia sempre pronta per noi.

E forse non è questa la fine, che dire “fine” è una questione di attimi, di casualità, certe cose non si capisce mai quando inizino e quando siano davvero finite.

Fabio Pinna e Bianca Cataldi

Ricordati di me #1

Il vento è un rastrello e Diego spera di restare. Tutti speriamo di restare anche se non é la cosa giusta, perché la paura dell´ignoto ci consuma i pensieri. Erica é partita e tornata, spinge la valigia e il trolley ad un angolo della stanza. Lei era piena di sicurezze, ma questa vacanza in Giappone l´ha cambiata. Ora é alla deriva, mentre sceglie i ricordi da tenere, da classificare, da appendere sulla lavagna dell´anima con in mano il nastro di velluto e lacrime di un regalo. Ma una deriva placida, controllata. Quando arrivi dove le distanze si annullano e i cuori paiono trasparenti, quando sai di poter lasciare qualche peso ché lo prenderà qualcuno, quando guardi e dove guardi vedi le stesse cose che avevi deciso di cercare, allora che tu resti o che tu parta in realtà non ritorni più, e non ritorni nemmeno più ciò che eri. Esiste sempre un posto da cui andare via, ed esiste sempre un posto da cui farsi accogliere. Siamo noi a dubitare di queste cose, non le vediamo come il vento che ad Ottobre rastrella tutto e ci lascia fuori con le coscienze nude.

Erica si sentiva come chi non viene invitata alla propria “prima” mentre spolverava e riordinava le mensole cariche di inutili soprammobili al loro posto solo per senso del dovere. Le prese questa abitudine quando tornava dal lavoro, con lo sguardo perso cercava di riordinare dove aveva già ordinato, cercando di dare un senso alla posizione delle cose come se lo stesse facendo con quelle della sua vita, come se un senso ci debba essere sempre. Siamo fatti così, ognuno si lega ad oggetti regalati, a canzoni perché ascoltate con qualcuno, a film perché la storia assomiglia ad una che per noi é importante, o a posti perché ci siamo fermati in loro in momenti importanti. Finiscono per diventare le nostre manie, per diventare il luogo dove tornare quando ci si sente persi, quando serve un passato per sovrascrivere un inutile presente.

Era rimasta a Nagoya e a dire il vero in tutto lo sterminato Giappone. Che poi la città era gemellata, per uno strano gioco del destino con la sua, Torino. Dovevano essere gemelli molto diversi, pensava. La robotica e le porcellane, gli spazi aperti e il design, il traffico di container e di taxi, il futuro. Il futuro era lì. Le giapponesi sorridevano sempre, le case erano semplici e minimali, pulite e accoglienti. A riempirle c´era l´anima di Nagoya, l’aria fresca e un orizzonte dominato dal grande tempio shintoista Atsuta-Jingu. La cosa davvero bella é che in tutto quel traffico, nel caos e nelle traiettorie incrociate il giapponese trovava sempre la calma, trovava sempre il tempo, lo spazio. Come tenere una finestra sempre aperta sul futuro. Poi era dovuta tornare a Torino, a fare l’infermiera e a fare finta con tutti che non fosse cambiato nulla. E poi c’era Diego, ma non c’era veramente. Era una proiezione, un desiderio che non sa di esserlo e un bisogno che non è mai stato detto.

Diego era l’ultimo arrivato tra i medici e faceva tutto quello che gli dicevano di fare, perché mettere le mani sulle persone é una responsabilità, perché la vita accademica in effetti è molto limitata e non tiene conto di molti fattori, perché comunque il rispetto bisogna guadagnarselo. Diego i suoi sogni, il sorriso che aveva indossato nel giorno della laurea, se li era persi chissà dove. Ed Erica era lì che si contava i giorni sulla punta delle dita e non se l’era mai chiesto, prima, che cosa ci facesse in quella casa, con Diego, con tutto il resto. I sogni di quand’era bambina e roteava con un tutù davanti allo specchio della mamma erano andati persi. Ci aveva pagato i pedaggi della vita, coi sogni. La ballerina, la cantante, l’attrice. Il mondo scintillante che non aveva mai avuto. La felicità. Chissà perché i bambini, quando sono bambini davvero e non sono cresciuti troppo presto, hanno la tacita convinzione che tutto andrà per il meglio, che ci saranno giorni nuovi e saranno tutti degni d’essere vissuti, che arriverà la pace nel mondo e che mangeremo caramelle per tutta la vita senza diabete e grasso sui fianchi.

1262452150903_fMa è che poi le cose cambiano. Si dimenticano. Si lasciano i tutù rosa nell’armadio e si indossano le scarpe basse, il camice col cartellino e si va. Sempre avanti senza inciampare mai. Era inciampata, però, Erica. Era inciampata tra l’aereo dell’andata e quello del ritorno ed era andata a finire che non era tornata per davvero. Il suo corpo sì, quello che spolverava i mobili e riordinava gli oggetti, quello era tornato a casa. La mente era in Giappone, tra le domande che per la prima volta aveva visto affacciarsi alla sua mente. La terribile incertezza e il dubbio dell’aver sbagliato tutto, dell’essersi dimenticata di sé per rincorrere una vita che forse non voleva davvero. E Diego, Diego. Coi suoi occhi troppo neri e i capelli eternamente spettinati, chi era davvero?

Forse non lo conosceva e non l’aveva mai conosciuto perché altrimenti, quello sguardo triste lì, lui non l’avrebbe mai avuto. O forse era che lui lo sentiva, che la stava perdendo. Che si stavano allontanando come le figurine nell’album quando si sollevano gli angoli e che prima o poi si sarebbero persi e allora non ci sarebbe stato più niente da fare. Ed Erica sarebbe tornata a Nagoya anche solo per un istante, soltanto per poter dire Eccolo, il futuro. Era qui e non l’ho visto. E invece era a Torino e si sentiva più vecchia, più stanca, con le rughe nel cuore e con la sensazione del tempo che scorre e lascia sempre meno spazio al domani, alle cose da dire e da fare, all’entusiasmo giusto per poter lasciare il letto ogni giorno e aprirsi al mondo.

Il dolore delle cose perse resta anche se è stato un bene perderle. Ci chiediamo scusa mille volte come se dovessimo essere diversi e, come se fosse sbagliato anche respirare soffriamo perfino l’aria. Il futuro. Il dolore delle cose passa alle persone e le cambia. Gli occhi roteano in cerca di appigli che fermino il presente. Fare ciò che è giusto e ciò che si può sono due storie diverse che non s’incontrano. Alle volte abbiamo il piede in due staffe, siamo tra ciò che si deve e ciò che si può.

E diventiamo irraggiungibili. Esistiti solo in ricordi di nessun passato, frangibili da ogni presente.

Fabio Pinna e Bianca Cataldi

American Losses – Prima, o poi sarà troppo tardi

Uno

Ogni senso era completamente preso dal misterioso sciabordio di onde. Immerso nel silenzio si muoveva lungo la riva del mare, le mani in tasca e le spalle strette per ripararsi dalla brezza marina della sera, cupo, brezza, ripensava al viso di quella donna. Rigato dalle lacrime. Ancora impazzita brezza. Era stata una giornata come le altre quella di due anni prima. Per lei. Frenesia in città, appuntamenti saltati, alcuni presi, sul filo, sì sempre sul filo. Del possibile. Adesso osservava curioso la forza di quell’anima così sofferente che nonostante l’indescrivibile dolore provato non emetteva alcun gemito. Le si poteva scorgere nel fondo delle pupille, l’epicentro degli occhi dell’anima, la lacerazione al cuore provocata dal quel male così profondo, da quella perdita così improvvisa. Era bastato saltare un taxi. Esser partita un minuto dopo.

Oppure avrebbe dovuto fermarsi a fare carburante all’Orion di Santa Fe’ Street e non a quello di Greenspens sull’ottantaquattresima più trafficata. Per vincere la lotta con il tempo. Per non intersecare la sua strada con quella di Pete Gregor, neo assunto dello studio dentistico Trevels e Co. Dave aveva ancora indosso il vestito nero mentre rivolgeva uno sguardo stranito alle orme lasciate dalla sua scarpa sulla sabbia. Cos’è la vita? Ecco cos’è la vita: è un’orma lasciata leggera sulla sabbia che presto sarà cancellata dal passaggio di tanto mare, è qualcosa di effimero, di passeggero, qualcosa che se non è basato su principi validi, importanti, saldi come l’amicizia, la devozione, l’amore, non trova una vera definizione. Cosa sono le emozioni, quelle che ti permettono di gioire fino quasi a raggiungere la luna in un solo battito, le sensazioni che ti danno l’opportunità di essere travolto da un turbine violento di passione, i sentimenti quelli veri, sentiti, vissuti, assaporati, sognati, voluti fortemente? In miliardi di circostanze diverse, sono quello che cerchiamo, che sentiamo, che diventiamo, che siamo.

Fragili a vibrare, o già rotti nella scatola prima di arrivare a destinazione. Alla stessa ora, di due anni prima, il vento si piegava per dar vita alle fiamme, il fumo si perdeva tra gli spifferi impercettibili e le voragini della lamiera piegata. La vita passava e non si fermava. Le emozioni tornavano a essere piccole quanto il bottone di una camicia, saltato fuori dal vetro. In un urlo spento. E poi quel tanto, quel bello, quel cortile di eternità e quasi onnipotenza affacciato sulla vita era per prendere fuoco, era per prendere acqua dal cielo fino ad affogare, era per le crepe. Era andare indietro fino a perdere l’ossigeno dal bordo del sedile ai piedi del cielo.

Due

Dave facoltoso, di bell’aspetto, affascinante, dalle grandi prospettive di carriera governativa, conosceva donne bellissime e intelligenti e uomini illustri, economisti, stimati ricercatori, i potenti dell’America sconosciuti. Condivideva con loro macchine governative parcheggiate in fila e scortate, sigarette accese da accendini d’oro, borse scure di pelle. Era un uomo il cui cuore era indurito dalla ricchezza e dagli agi; un uomo capace di vivere nella bugia come fosse verità, con scrupoli dietro le spalle, con molte pretese, incapace di pazienza, di chiedere con cortesia, anche nei sentimenti.
Era stata una voce anonima gracchiante a iniziare quel viaggio a ritroso, vorticoso, tra le ragioni della vita.

<<Dave Smallows?>>.
<<Chi parla?>>.
<<Dave Smallows?>>.
<<Sì..mi dice..>>.
<<Capitano Senders, del distretto di Manhattan>>.
<<Catherine Brudge Senders è sua moglie, giusto?>>.
<<Sì, le lascio il suo numero? 7659..>>.
<<Signor Smallows, mi stia bene a sentire e non mi interrompa, sua moglie ha avuto un incidente con una vettura tra la quindicesima e la sesta, ora è in viaggio verso The Guardian Hospital, dove sarà ricoverata d’urgenza in rianimazione>>.
Silenzio. Il coraggio mancato.
<<Mi ha capito signor Smallows?>>.

L’ultima cosa che ricordava di Catherine erano le splendenti lune alle orecchie fatte comprare a Margie, la sua segretaria, indossati alla cena di due settimane fa al gran ristorante Gusto Italiano.
Si fermò un istante, voltò lo sguardo sul mare e lo perse laggiù oltre quella grande distesa mentre i pensieri viaggiavano ininterrotti come la pellicola di un film muto. Era una giornata particolarmente grigia e l’aria odorava di pioggia, di temporale. In lontananza si potevano scorgere le luci dei primi lampi, i rumori turbolenti dei primi tuoni. Erano passati solo due anni, due interminabili anni di fatiche da quella telefonata. Di aggrappi alla rassegnazione, alle speranze, all’odio cercato e rinnegato, scivolando dal pianto dietro la tenda della sala operatoria a un sorriso dovuto, emozionato, costretto, due giorni dopo il coma per lei. In bianche lenzuola. Più corta. Tragicamente più corta. Il giorno lentamente stava abbandonando la scena per lasciare il posto alla notte. Dave con passo deciso spinse la sedia a rotelle verso la sua autovettura.

La verità era che Pete Gregor, assistente del Dott. Hudgens dello studio dentistico Trevels e Co era il figlio della distrazione e la sua Jeep non aveva fatto sconti in una serata di stanchezza. La verità era che segretamente Pete Gregor era stato assoldato dalla controparte politica di Dave per eliminarlo segretamente dalla probabile futura scena presidenziale. La verità era che Pete Gregor lavorava in incognito come agente operativo Cia, in collaborazione con l’ufficio D dell’Interpol con supervisore capo Francois Modèl a Lione, e aveva il compito di convincere definitivamente il signor Dave Smallows a tenere la bocca chiusa su certi affari americani all’estero appoggiati dal presidente. Nell’interesse di tutti. La verità era che se lo sarebbe chiesto per molto tempo ancora. Ma di sicuro era stato per via del suo lavoro. Lo sapeva. Le passò l’indice sullo zigomo per portar via tutta la pioggia. Prese in braccio Catherine e l’adagiò sul sedile. Salì in macchina, accese il motore e diede un ultimo sguardo a quella tavola grigia e calma laggiù, inserì la marcia e iniziò il suo ritorno verso casa.

Tre

Dave contava le giornate del lontano passato in cui Catherine non piangeva, quelle in cui si abbandonava in cerca di affetto, in cerca di lui. Prima di molte collane, e borse e cene mancate. Se le ricordava tutte, la memoria non serviva. Si erano presi come si compra un regalo in ritardo la sera di Natale. Visti e piaciuti. Imbustati e non provati. La bellezza, la carriera, i modi, il vestir bene, erano bastati. Era tutto di classe. Non è facile trovare qualcuno che pensi sia alla tua altezza.
Non si erano mai amati per mezz’ora. Servivano a spingere avanti la vita avanti di due o tre metri, per vedersi giovani di successo in stanze vuote di una villa a tre piani. Per sfogare lo schifo della vita nella stessa stanza. Per avere qualcuno nell’altra metà della foto con sfondo Miami. Per riempire il vuoto. Quello con cui tutti nasciamo e ci accorgiamo di avere appena rompiamo il guscio con il becco. Per non sentire solo silenzio nella nostra casa. Perché il letto scricchioli a dovere. Per far parte di qualcosa davanti agli occhi di tutti.
Le ventitré. Dave si trovava al capezzale del letto dell’ospedale; tirò fuori dalla sua 24ore di pesante cuoio nero la lettera che aveva trovato per caso nel cassetto della scrivania mentre cercava documenti di sua moglie da portare al primario. Catherine sedata, dormiva.
Lentamente tirò fuori dalla busta quel foglio rosato. Aprendolo avvertì la leggera essenza del profumo che sua moglie vaporizzava sul corpo prima di dormire la notte. Tirò un profondo sospiro e iniziò la lettura:

Caro Dave,
mi trovo immersa nei miei pensieri mentre, facendo male al tappo di una penna, penso a te…a noi.. Non riesco a comprendere cosa ci è successo, cosa è successo al nostro amore che aveva la forza e la foga di una tempesta, che era dirompente e impetuoso come un mare in agitazione prima di un temporale, che era appassionante e coinvolgente come un caldo abbraccio, un tuo abbraccio..un tuo bacio.
Guardandoti negli occhi, non vedo più il Dave di qualche anno fa. Il Dave che sarebbe venuto con me fino in capo al mondo, quel Dave che mi ha giurato amore eterno sigillando l’emozione di quel momento con uno sguardo dentro al quale potevo scorgere cristallina la sincerità di un amore puro.
Ora nei tuoi occhi così profondi ho la sensazione di perdermi, di smarrire la strada, di raggiungere un bosco scuro e cupo dal quale non saprei più come uscire e tornare indietro.
Non ti nascondo, amore mio, che mentre scrivo tremo e piango interrogandomi sul perché tutto abbia perso la magia di un tempo.
Ti sento distante, freddo, indifferente al mio sentimento, al mio amore e forse questo e ciò che mi ferisce di più, ciò che mi incide sul cuore una ferita dalla quale sento gocciolare lacrime amare. Vorrei poterti donare il mio amore incondizionato, senza barrire, senza limiti, ma devo abbassare la testa e ingoiare il nodo alla gola in gola davanti al muro che ti sei costruito.
Sai, l’altra notte non riuscivo a prendere sonno e mi sono accorta che tu non eri affianco a me. Scendendo le scale, mi sono diretta verso il salotto. Vedendoti lì seduto, sono rimasta sulla soglia della porta osservandoti mentre pensieroso, sorseggiavi un bicchiere di vino rosso scrutando oltre la finestra, il buio della notte.
Avrei voluto raggiungerti e senza proferir parola abbracciarti e donarti un tutto il mio affetto ma non sarebbe servito, eri lontano.
Piccolo amore mio, non so come sarà il futuro, non so se questo è un periodo grigio dovuto al cambiamento del tuo lavoro e alle grosse responsabilità che ti sono state affidate e che quindi hai solo bisogno di tempo per riorganizzare il tuo di tempo.
Apprezzo molto i tuoi regali, i viaggi. Ma non è questo ciò che vuole una donna, ciò che voglio io.
Conosci il proverbio che dice: Due cuori una capanna? Mi basterebbe una semplice capanna ove poter poggiare le mie membra stanche e affaticate dopo una giornata di lavoro, se questo potrebbe significare ricevere il tuo amore e sentirlo forte e caldo come quando eravamo fidanzati, pronti a superare alte colline e irti monti pur di coronare il nostro sogno di una vita insieme. E due cuori: il tuo e il mio.
Non so se avrò mai il coraggio di darti questa lettera e svelarti così tutta la mia fragilità adesso nascosta alla tua vista. Vorrei poterti aprire il mio cuore così da permetterti di vedere che all’interno ci sei solo tu e solo tu possiedi le chiavi dello scrigno che lo racchiude.
Ti amo Dave,
Catherine.


Si sentì mancare. Quelle parole.. “le scale, mi sono diretta verso il salotto”, “ avrei voluto raggiungerti”. Non avrebbe più potuto farlo senza quella maledetta gamba. “Amore mio”, “due cuori”, “non vedo più il Dave di qualche anno fa”, “tremo e piango”. Era stato crudele. L’aveva trascurata. No, peggio. Non l’aveva amata. E lei sì. Lei ci credeva. Ci sperava. Questo fu il pensiero ricorrente di Dave per molti anni. In agonia.

Quattro

Mi raccontò tutto. Mi chiamo Abhisar Gursharan, e sono il fisioterapista che segue a domicilio la signora Catherine Brudge Senders. Dave è cambiato molto negli ultimi anni. Ha lasciato il lavoro, che lui stesso definiva “pericoloso”per via di certi segreti che celava, per dedicarsi a Catherine. Alla sua salute fisica e mentale. Alla sua emotività. Ho visto di tutto facendo il mio lavoro, conoscendo così tanta gente. Ma non ho mai visto questo. Ogni cosa che Dave poté fare la fece. Calmò i pianti di lei. Pianse con lei. Le cambiò le medicazioni. Le diede tutto se stesso annullandosi. Riducendosi a uscire raramente di casa. Vendette la sua automobile di lusso. Le trovò l’hobby del bonsai. Le stette così vicino che soffrì anche lui dello stesso male. E iniziarono ad amarsi e a rispettarsi profondamente. Sembrava impossibile. Era vero.

Un giorno, dopo mesi di chiacchiere e sorsi di whisky mi raccontò tutto. Quel tutto che gli faceva male. Mi disse che ora amava. Non era pentito di amare. Disse che amava troppo. E che il dolore stava diventando sempre più forte. Al che gli chiesi quale dolore. Il dolore di non averlo fatto prima. Gli dissi che non avrebbe salvato Catherine comunque, e che spesso ci accorgiamo degli errori solo dopo avvenimenti che hanno la virtù di cambiare qualcosa in noi. Annuì. Mi faceva molta tristezza vedere quell’uomo piegato. Ma ci sono abituato. Nel mio lavoro incontro solo persone che soffrono. Soffriamo tutti. Il cinismo non ci salva e non ci spiega il perché. Bisogna solo andare avanti.

Catherine migliora di giorno in giorno. Sarà un processo lungo, ma ormai ci vediamo una volta al mese. Lei può continuare a vivere. Quanto a Dave, ha lasciato un biglietto d’addio falso sul tavolo e una busta con un mucchio di dollari dentro che ho avuto premura di ritirare dal suo conto. Sarebbe andato a vivere in un paese caldo del sud. Questo diceva la sua calligrafia, niente più che una riga. Ora che l’amore li aveva fatti incontrare per davvero. Tutto questo è a rapporto. Non sono solo un fisioterapista indiano. La Cia chiude sempre le sue faccende in sospeso. Abbiamo avuto pazienza, per via di lei. Sei mesi fa è stata abbastanza forte da reggere il colpo di questa improvvisa scomparsa, direi. Così Dave è passato al paese caldo, se sia verso sud non lo sa nessuno, è all’inferno. E l’ho spedito io, per raccomandata con un proiettile in testa. Il fascicolo è chiuso. Meglio essere cassieri in un supermercato. Non sapere di presidenti e di paesi.

Mi dispiace Dave, sei uno dei tanti martiri per il bene del paese. Qui non vince il bene, l’amore. Non vince una donna con una gamba sola. Non vince un uomo pentito. Non vincono i pianti e nessuno li ascolta. La ricchezza si paga e la libertà e il potere si comprano: siamo in America.

Fabio Pinna e Simona Avallone

Etimologia dell’essere

Lo guardavo ed ho aperto il dizionario oggi, ho fatto una scelta.
Avevo due pagine, sinistra e destra e all’incirca sessanta o più parole in entrambe. Avevo mille persone a cui chiedere….e ho parlato con te. Tu che la scelta la pesi, nella bilancia di quel che sei. Niente grammi in più, solo il giusto. Tu, te stesso e la tua coscienza, la tua valutazione dell’ascoltare, il tuo comprendere a percepirne il fondo del pozzo che sei. Come un bilanciarsi, come l’universo che ha voluto noi in un ordine alfabetico nella folla dettata di nomi casuali, come le stelle, la luna, il sole, come il bene e il male, come l’amore dato e quello ricevuto. Come tutti. Come nessuno.

Quel nessuno che se decidi di chiamarlo per nome le notti, poi ti risponde con tono caldo è una fisionomia nota d’artigli stridenti. Tu, te stesso e i tuoi pensieri ad equilibrarsi ora, in questo momento che parlo con me immaginandomi d’essere il tuo volto. Persone, posti, cose, modi di fare di essere e di sembrare.

Sono tutte scelte di cui perdiamo il conto, di cui il conto forse nemmeno teniamo più, un po’ per comodo un po’ perché così deve essere fatto a non uscir folli nel comprendere che sequenziare i numeri fa male dopo cento e più non si conta suggerisce la vita, e la vita noi l’ascoltiamo, ne mandiamo giù il gusto nella salivazione secca o in quella eccessiva dei dettagli visti, di quelli assorbiti, sudati, nel viversi in maniera reale e profumata nell’essersi poi celati agli altri . Perdiamo il filo essendo noi la matassa fatta di lana d’altre persone, mille facce di un diamante che si accende e si spegne e la luce siamo noi e i nostri diecimila lati dello stesso lato della medaglia, quella che provi a vincere trovando il senso, avvicinando il bene e le cose che contano. La medaglia, come se una rimarcazione del merito appesa sul petto possa dare valore alla scelta appena intrapresa.

Un applauso a quello che siamo, per uno sguardo non dato a quel che ci troviamo ad essere, che viene offuscato nel mostrarci in quel che poi ci diamo. E poi ci son scelte che non son scelte, si guidano da sole e la patente gliel’abbiamo data noi senza fargli fare l´esame. Scelte che ti fanno uomo, che ti fanno scolaro al cospetto della vita, che ti fanno bastardo, scelte che ti fanno andare lontano da dove volevi, speravi. Scelte che ti gratificano quel tanto che ti basta a fare altre scelte, che sai devi imboccare come avessi il culo come un paraurti di una macchina pagata poche lire. Tu, le direzioni, il caos della gente che insegui e niente altro. Il caos. Sinonimo di disordine, non ordine, l’antagonista del dire facile “ tutto ok, si tutto apposto” che se vai a vedere e quello che le orecchie che non son le nostre amano sentire per vivere bene. Creare un problema è già stessa una scelta nel comprendere il problema su chi poi l’ascolta. E in pochi affrontano il tuo problema. Tutti ad essere salvatori di se stessi e mai di altri, che spesso questi altri siamo noi. Lontani da me, da quello che sono, da quello che amo essere e fare un uditore di problemi altrui.

Ci vorrebbe una sicura per le scelte, come per gli elettrodomestici, i finestrini posteriori delle macchine, le pistole. Le togli per renderti conto che da ora in poi non si scherza, non si torna indietro. Con la paura di chi non può sapere ancora abbastanza e il coraggio che basta di chi la vita la prende tutta, in orario, con la forza. Ci vorrebbe un Gerry Scotti sempre pronto a dirti “la accendiamo”? A farti ragionare su cosa ti porti a casa, cosa perdi, cosa ti giochi.

Direzioni come disegni. Rotte come lacrime e sorrisi sui visi. Orbite come di sogni. Disegni dei bisogni fatti di sogni, fatti di scelte. E invece non sappiamo proteggerci da noi, da niente. Ci sentiamo liberi nel prendere scelte ma non ci sentiamo così liberi nell´affrontare le conseguenze. Non importa quanto ci sia di nostro, del caso, nella logica, non importa quanti fottuti muri abbiamo tirato su, ci perdiamo attraverso, non ci parliamo attraverso, ci pentiamo attraverso e, passiamo la vita a trapanarli, a scalciargli e a sputarli accettando di chiamarli casa.

Casa. Quella quattro mura sature di pensieri e valutazioni che se solo potessimo dar verbo agli intonaci farebbero fraseggi e quartine degne di nota, saccenti più loro di noi stessi che effettivamente non ci valutiamo.

Poi ci son scelte che devi prendere quando ancora non sei pronto che peggio per te e, altre che puoi, altre dove comunque é tutto deciso, altre che servono a scuoterti prima dell’uso, e non è uno scherzo, svegliarti , riprenderti e avere paura del dolore e sentire l’odore delle cose che pesti con il tatto e che vuoi. Ci sono scelte lunghe che le puoi mettere in attesa pisciare e tornare, e altre che basta un sì per renderle semplici di conseguenze ignote. Alcune ti mettono davanti chi sei senza che tu lo sappia davvero, che ti ripetono le tue filosofie spicce , che valgono, altre sono solo sfide alla portata delle tue palle, altre ti stirano il presente te lo preparano a cose belle e cose brutte. Alcune che dimenticherai, altre che sceglierai di non pensare e altre che ricorderai per tutta la vita un po’ come le foto. E sfogli le foto poi pensando alle scelte. E guardi i soffitti pensando alle svolte.

Scelte che non son scelte ma imposizioni a salvaguardia di noi stessi. E a volte lo son per le persone che stringiamo a noi, quelle che poi capiranno nel tempo futuro ma che comunque già da noi viene compreso nel tempo presente, come fosse uno scritto, un dettato su quel che succederà un domani ed i protagonisti siamo noi. Arrivare da un punto all´altro senza ingolfarsi, senza impantanarsi, senza affogare, senza sbattere le ali sul vetro.

Per arrivare al punto giusto. Per arrivare e sentire che la valigia aveva un senso. Viviamo e ci buttiamo tutto dietro le spalle. Giochiamo o facciamo i seri, promettiamo, ci scansiamo, ammazziamo qualcosa di noi e degli altri, rafforziamo le logiche, non perdiamo tempo ad ascoltarci, troviamo, cerchiamo senza trovare, ripartiamo. Scegliamo ogni volta cosa essere nel corpo di chi. Progettiamo di cambiare il mondo e aspettiamo le rivoluzioni. Le viviamo.

E viviamo di poco, un sorriso, uno schiaffo, rimettiamo comunque sempre dritti i quadri, scalciamo dentro a quei muri che hanno le nostre direzioni, i dubbi, i perché repressi. Dentro si muove un cuore, la scelta di qualcuno o solamente di chi rimarrà, gente forse, che una volta buona ti giochi davvero tutto, tra muri che a furia di tirarli su chiamiamo casa.

Le scelte facili e quelle difficili. Le scelte che non son scelte ma strade da imboccare per non star male e poi salvarsi. Salvarsi da cosa, se infine ci ragioni. Salvarsi dal caso, quell’illogico caso che stringiamo come se fosse la mano sudata di un’amante che no ci merita nella passeggiata della vita. Una di quelle mani a cui vorresti dire, ho caldo ma che poi tieni sempre più stretto, stringendola sempre più forte. Perché l’adori….perché è la vita. Perché l’ami più di te stesso anche se sei sofferente nel vederla accaldata e sudata del tuo contatto. Perché devi dare una parvenza di logica alle scelte, al caso. Oggi ho aperto il dizionario. Potevo scegliere tra due parole vivere e vocabolo. Essere al mondo o parte integrante di un linguaggio.

Io l’ho fatta, la mia scelta e sta nel mezzo. Scriverti. Parlarti. Esserti…per un attimo di Vita.

Fabio Pinna e Cristian Sotgiu

Mille solitudini

Siamo esposti, siamo troppo esposti e pure troppo insfiorabili. Ci baciamo solo con mille solitudini.

Non sono in classifica, non sono in cima da nessuna parte tipo liste e desideri, non sono pieno, agevolato e raccomandato, non sono il preferito, non sono al centro. Sono un lavoro duro iniziato e non ancora finito, non sono uno di quelli belli senza sforzo, di quelli pronti ad andare, sono uno di quelli che si mettono a repentaglio, che aspettano che succeda per dire “lo sapevo”, che perdono solo per vizio, che se parlassero, se, magari si ascolterebbero. Uno in bozze, uno di quelli che non si sono mai incontrati e vagano attraverso le vite degli altri in cerca di sé.

Vorrei essere come la lingua italiana che riempie di sfumature, che puoi dire la stessa cosa in mille maniere, ed invece, c´é un Fabio ad una maniera sola, imparata ad essere  e incorporata. Un prendere o lasciare. Vorrei essere mille scatole cinesi e tenere l´ultima per te. Invece sono per tutti, di tutti e terra di nessuno. Io sono per te proiettile che ti lacera desiderando essere la medicina nelle tue mani. Sono trasparente e se mi guardo dentro le cose spariscono tutte, mi lascio oltrepassare da tutto come un bambino, e cambio, con la trasparenza del cristallo e la sua fragilità.

Sono quello che arriva solo a metà, che si dimentica di sé, che spera sempre più di quanto deve, che supera i limiti nel pensiero, che si ferma per pensare. Che chiede e chi mai risponderà. Son tutti alle prese con sé stessi, a lavorare sull’incompiuto, a ignorare senza doversi spiegare, a tappare le orecchie quando si chiede aiuto e a suonare il campanello quando gli serve.

Siamo della stessa marca. Vorremmo che la vita pesasse di meno o vorremmo più forza. Vorremmo il segreto per capirci, per raschiare il fondo delle anime come si fa con il dolce ed essere pieni, con la pancia dell´animo pieno. Vorremmo problemi meno feroci, vorremmo persone che non si adattino a quei problemi feroci diventandolo essi stessi. Vorremmo pause in cui scoprire. Siamo biglie in discesa, ci rimane il percorso, il percorso é tutto quello che abbiamo. Siamo un attimo prima di farcela, il vento che non può spostare le orme sul bagnasciuga e allora sposta le onde per cancellarle. Siamo cuori a dieta.

Noi ci annulliamo, ci ritroviamo sempre in ritardo con niente da dire con gli anelli in mano e i sogni morti in cuore. Siamo quelli su cui cadono addosso sempre gli stessi colpi. Un confronto dentro a un ring mentre ti ripeti “non fa male, non fa male”, rotti, rotti, da riparare e non da rifare. Giriamo con quel mai appiccicato sulle spalle che non ci prendiamo da tanto e gli occhi dicono “forse” a occhi sbagliati e i “perché” devono essere zittiti. Passiamo tutto quel tempo a cercarci, che stanchi, il tempo restante ci sostituiamo. Ci rigiriamo le vite senza idee in cerca dell´ispirazione come fossimo una poesia da scrivere, cercando di spogliarci senza capirci, di non sentire per un attimo i vuoti, travasarci incomprensioni. Passiamo dal tatto per arrivare ai pensieri, ci portiamo le parole da lontano, parole di qualcun altro, cambiamo le preferenze, ci adattiamo per sopravvivere. E torniamo sempre come l´inverno.

Ma adesso basta, io odio questa scrittura. La odio talmente tanto che la amo. La odio per gli stessi motivi per cui la amo, perché mi salva, perché mi costringe a dire chi sono a me stesso e chi vorrei essere. La odio perché sono ripetitivo e parlo di te, di lei, di gente che non esiste. E noi non possiamo vivere ugualmente condensati fuori da queste righe, non siamo così leggeri e disinvolti. La odio perché mi capisco, mi rammarico e mi perdono. La amo e la odio perché torno a te, senza toccarti, senza investirti come vorrei. Questa scrittura é lo specchio di mille solitudini che non incontrano le tue.

E tu, anche tu sei come mille solitudini, e io ne amo una. I nostri ieri ce li restituiranno maltrattati e consunti. Che importa ora che lo sappiamo. E certi dolori cadranno all´insú dal cuore al cielo, persi e imprigionati, in mezzo al niente che hai dentro al petto. Mille e una solitudine.

Fabio Pinna

 

tumblr_mcccz1lvok1r2h9t2

Sola.

Per una volta avrei dovuto accontentarmi della definizione che il mio cervello era disposto a darmi invece di cercare tra gli strati della membrana che proteggevano un cuore, il suo. Era solito stare in equilibrio su un filo di pregiudizi, sdraiarsi all’ombra dei sorrisi che regalava e rinfrescarsi con le sue stesse lacrime. Non so perché lo feci. Non so cosa mi spinse ad aprire la porta di casa per andare al parco, dirigermi verso la sua panchina, sedermi accanto a lui e dirgli:

– Sono sola.

Accolse quella mia fragile confessione con un torrido silenzio.

– Sola, senza una “E” finale che mi faccia brillare, senza una “A” centrale che mi faccia sentire lo scontrarsi dei passi danzanti di una coppia di innamorati. Sola, con una “O” centrale e una “A” finale. SOLA, talmente sola da non essere degnata nemmeno della compagnia delle parole, perché non ci sono nemmeno sul dizionario, c’è un “SOLO”, ma quello non sono io, io sono “SolA”, come il fiume dei Beschidi. Se solo fossi stata un “SOL”, così da aver l’onore di far vibrare milioni di cuori introducendomi silenziosamente tra le righe di un pentagramma. Se solo fossi stata un “SOLstizio”. Sarei stata sempre in eterna attesa della mia gemella diversa, sarei sempre stata in attesa di qualcuno simile a me. Avrei potuto essere qualsiasi cosa…

– …eppure, hai scelto di essere sola. – continuò lui rilasciando un lungo sospiro, mentre sulle sue labbra si era posata l’ombra di un sorriso.

– Esatto.

– Non so sinceramente quanto sia esatto ciò che stai dicendo. La solitudine è uno stato d’animo creato dall’essere umano. La Natura e l’Universo la rifiutano. Hai mai visto una cellula o una molecola lavorare in solitudine, creare qualcosa, in solitudine?

– Cosa c’entra? Io non sono né una molecola e nemmeno una cellula, sono solo Sola, capisci?

Mormorò: “ Sei appunto un ammasso di cellule, molecole, nient’altro.”

Lo guardai come offesa, mentre tirava fuori dalla tasca una penna e un foglio.

Scrisse in stampatello “SOLA”.

– Conta.

– Cosa dovrei contare? – gli domandai.

– Conta le lettere che formano questa parola.

– S, O, L, A. Quattro lettere.

– Sì, quattro lettere sempre pronte a farti compagnia. Vedi, quando senti che la solitudine sta inghiottendo il tuo mondo, tu prendi carta e penna e ricordati che non sarai mai sola, perché avrai queste quattro lettere disposte a farti compagnia. Scrisse sul foglio diverse parole “FELICE, SOGNATORE, SORRISO, ABBRACCIO”.

– Ecco, queste sono le parole che mi ricordano che non sono solo. Ciò che appartiene al mio carattere mi difende dai continui attacchi di mille solitudini del mondo.

Abbassò lo sguardo ed iniziò a fissare l’asfalto.

– Ti rendi conto che ci vogliono miliardi di frammenti di bitume per creare questo asfalto, per creare un’unica cosa indivisibile come questa? Non basta una persona per creare l’emozione del vivere, la gioia, la felicità, e perché no, la tristezza, la nostalgia, tutto ciò che ci rende umani, ne servono tante, o meglio dire, servono le persone giuste, quelle che sanno creare quel forte e resistente asfalto separato con un umile apostrofo da un qualcosa che lo determina, che lo rende unico al mondo: il suo articolo determinativo. Senza il suo articolo sarebbe una delle tante definizioni teoriche, vive solo nei libri, invece no, quest’asfalto, il tuo asfalto vivrà nel mondo perché è stato creato unendo particelle di caratteri simili e diversi.

Tu non sei sola, tu sei “LA SOLA” che può salvarti da questo tuo attaccamento ad un qualcosa che non deve esistere in un cuore che batte vita. Tu sei l’articolo determinativo che manca alle tue giornate, al tuo futuro. Mille solitudini da far incontrare.

Emel

Perla d’Ottobre

Ha vent’anni già ma conserva ancora il sorriso sghembo di quand’era bambino, di quando era stanco di fare i compiti e chiedeva a sua madre la scatola dei giochi. Anche oggi, con febbraio che lancia pioggia contro i vetri del bar, con febbraio che gli piove dentro, indossa il suo solito sorriso e si guarda intorno. Il bancone, Marco alla macchina del caffè – andavano alla materna insieme, con Marco, chissà se lui se lo ricorda – e quella bella ragazza castana che è qui ogni settimana con un ragazzo diverso. E’ che gli si serra la gola, a guardare il castano dei suoi capelli, perché anche Monica aveva gli stessi boccoli, quand’era con lui e non si era ancora fatta rossa, e gli stessi occhi e camminava nello stesso modo, un po’ ondeggiante, come fosse sempre incerta se restare in piedi o cadere, se mantenersi o precipitare. Farsi salvare o scomparire. Ed era quello che aveva fatto, alla fine. Scomparire.

Al tavolino alla sua sinistra c’è una donna dall’età indefinibile, gli occhi verdi come un miracolo che appare e scompare tra le fiamme dei capelli. Quarant’anni, forse. Lavora a maglia, lana nera, ma esiste ancora gente che lavora a maglia? Eppure lei è lì, lavora instancabile, ogni tanto lo guarda e fa un sorriso breve, frettoloso, poi dirotta lo sguardo verso il tessuto nero che le sgorga dalle mani.

“Perché il nero?” le chiede lui, all’improvviso, prima ancora di pensare di rivolgerle la parola. Sarà per il caffè che ancora non arriva e lui, senza caffè, non ragiona. Sarà che il ricordo di Monica gli si sta accartocciando nel cuore e lui non può sopportare in silenzio il rumore che fa il passato quando fa male.

“Perché contiene tutti i colori.” gli risponde la donna senza smettere di sferruzzare. Su e giù, su e giù. I ferri che giocano alternandosi senza emettere suono.

“Li assorbe, vorrai dire.”

“Li custodisce.” lo corregge lei, e sospira un sorriso.

Restano in silenzio, senza guardarsi. Li custodisce. L’accartocciarsi di Monica dentro il suo petto. Vorrebbe buttarla via, l’immagine di lei. Scaraventarla fuori dal finestrino di un’auto in corsa, come una carta di caramella. Eppure, resta.

“Hai l’aria di uno che è tanto tempo che finge di sorridere.”

Lui resta interdetto e si volta a guardarla. Quando incrocia i suoi occhi non gli sembrano veri, si possono avere occhi così verdi? Scoppia a ridere di una risata nervosa, poi risponde:

“Sono un po’ come la tua lana nera, io. Custodisco tutto dentro di me, anche ciò che vorrei stracciare via.”

Tutti hanno una storia da raccontare in questa benedetta vita e nessuno vuole ascoltare, per la briga da prendere, perché comunque si somigliano tutte, perché in fondo ognuno traccia le proprie rotte lontano dagli scogli, i problemi, altrui. Prendiamo quel che possiamo per quanto possiamo, poi per dare troviamo mille scuse. Però é un discorso talmente complicato che é tremendamente semplice: o sei in credito o vai in perdita, in pari non si sta mai. E in perdita ci stanno solo quelli a cui gli funziona il cuore. Lui aveva una storia da raccontare, ma forse ancor più da custodire. Doveva disfarsene, doveva farla diventare definitivamente perla e appenderla su di qualcuno. Perché un dolore può splendere, può testimoniare e può essere al posto giusto anche nel presente.

Monica aveva cercato di stare in pari, equilibrista invano, finendo per usare più testa che cuore, finendo per essere in credito con tutti. Questo aveva consumato i gesti e le parole, perdevano peso, senso.Tanto che lui non se l´era sentito più di convivere con il pilota automatico inserito e nemmeno di spiegare, perché entrambi sapevano già tutto, così le aveva lasciato il mobilio ed era tornato provvisoriamente dai suoi con il minimo indispensabile in straripanti vecchie valigie. E mentre costruiva il suo castello di sabbia una semplice telefonata aveva fatto da colpo di vento, ma forse più da colpo di stato, cambiando l´ordine delle cose e il loro significato. Il suo solito sorriso perso e una chiamata che poteva essere qualsiasi.

“Aspetto un bambino, è tuo”.

“Stai scherzando?”.

“Sono tre mesi, tre mesi che lo porto dentro. Senti mi dispiace, ma son ancora in tempo per…hai capito. Penso che sia la cosa migliore”.

Un bambino. Un figlio. Un pezzo nuovo, un nuovo pezzo di te. E la cosa migliore.

“Non è mio”.

“Certo che è tuo”.

“È nostro”.

Ottobre strappava i giorni del calendario come le foglie dagli alberi. Nulla aveva più lo stesso sapore. La vita cambiava. Ci son momenti di transizione  simili ai binari per le escursioni termiche dei ponti, ti avvicini se é caldo e ti allontani se è freddo e quando ci passi sopra li senti, li senti sempre. Era già difficile ragionare per due, ora per tre diventava una scommessa. Lui aveva fortemente voluto che venisse al mondo. Chi gliel’avrebbe spiegato da grande che non era il frutto di un amore? L´avrebbe scoperto da solo/a. La vita é triste, profondamente. In mille maniere diverse. Facciamo del male senza accorgerci.

Lui aveva sempre una storia da raccontare, ma forse ancor più da custodire. Doveva disfarsene facendone una cosa nuova, doveva farla diventare definitivamente perla e appenderla su di qualcuno. Perché un dolore può splendere, può testimoniare e può essere al posto giusto anche nel presente. Alla 22esima settimana della gravidanza, in preda al dubbio di non farcela e all’estasi del pensiero di dedicarsi finalmente alla vita di qualcuno che non fosse se stesso, in quella settimana scoprì che sarebbe diventata Gabriella la gioia figlia di un grande dolore, avrebbe finalmente visto da che parte proviene la luce e l’avrebbe chiamata perla.

Fabio Pinna e Bianca Rita Cataldi

Come piangere su piatti freddi – Rimpianti

E te li ritrovi lì…serviti su un candido piatto, quando a fine serata dopo le 12 ore di lavoro ti ritrovi a salir le scale, aprire la porta di casa ed comprendi che è arrivato il momento di prepararti la cena. Piatti freddi. Plastici e statici nel loro essere duri da mandar giù come bocconi. I rimpianti. I pensieri non fini a se stessi ma fini a distrugger la logica del vivere nel susseguirsi degli eventi. Oggi non ho fame, eppur devo mangiare. Eppur li devo digerire. Rimpiangere da rin – piangere, come piangere. Come piangere dentro. Come piangere in ritardo, al momento sbagliato, al momento perso.

Penso ad amori persi, forse mai avuti realmente. Penso alla gente, che mi ha assaporato e mai gustato realmente nel mio sapore. Penso al dolore dato. Che non ti accorgi, non vuoi, non quantifichi, non auguri, cerchi di non ricordare. Quello dato nel bene dell’essere consapevoli dei propri errori e, che poi ti ritrovi a correggere nel giusto che devi offrire a chi hai affianco, senza esser mai compreso, nel dolore del bene che cerchi di offrire. Penso agli orrori, quelli che mai narrerò… Rimpianti per aver fatto, per non aver fatto, per il troppo e il poco, per il detto e taciuto. C´é che a volte non ci sentiamo mai giusti, che perdiamo il conto delle variabili e ricordare con le ferite aperte resta l´unica cosa da fare per far entrare ossigeno. Rimpianti perché la colpa cade sui piú deboli che hanno creduto con il coraggio dei forti, rimpianti per non esser andati a vedere come finiva e se finiva.

Boccone dopo boccone mi sento sempre più sazio, sempre più affamato di loro. Ma non é bello come la pubblicitá “piú lo mandi giú piú ti tira su”. I rimpianti… Cibo del terzo millennio. Cibo di sempre dai tempi che furono. Li cucino con dedizione, pietanze saporite di vita. Li arricchisco di considerazioni che rasentano follia, speziate di realtà di vita provata su pelle. Oggi non avevo fame se ben ci ragiono ma dovevo mangiare, le mie fredde pietanze. Le accumulavo sul frigorifero. Oggi ne ho smaltito un po’ ed ancora non  mi sento sazio abbastanza.

Rimpianti, la benzina rimasta dei sogni. Discariche di lusso, vagoni merci indirizzati a mille stazioni da spacchettare in un cuore solo. Una storia a parte costruita attorno a te, ti possiede o la possiedi. Contratture controllate ai muscoli della speranza, fermo immagine fin troppo schietti. I rimpianti son il gancio traino che ti tengono legato al passato, che te lo fanno portare ovunque, come un peso morto che brucia vivo nei tuoi viaggi. Sono un´appello a cui si risponde in ritardo, sono lampeggianti, accesi e spenti e avvisano e solo tu sai cosa. Tornano e tu tornerai?

Il rimpianto è un enorme spreco d’energia. Non vi si può costruire nulla sopra. Serve soltanto a sguazzarvi dentro.
Katherine MansfieldBliss , 1918

Riordino questa cucina. C´é un piatto di troppo, servito dal passato, indigesto, labile e incontrollabile. Le mie lacrime sono i testimoni, le asciugo col fon, le asciugo con la forza che rimane, le asciugo con illusioni verosimili e persone che devo incontrare ancora in questa cucina. Non sempre siamo quello che eravamo, non faremo quello che abbiamo fatto. Questo le lacrime dicono. Aspetteró il momento di sparecchiare questi maledetti bagnati piatti freddi, per non sentirli mai piú sullo stomaco, per non lasciarci me, per non sguazzarci dentro come un bagnante che sta per affogare. Fará male archiviare e fará bene sollevarsi. Asciugare le lacrime e sostituire la polvere sporca dei rimpianti con la polvere lucente dei sogni.

Fabio Pinna e Cristian Sotgiu