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Mi fanno male i pensieri, dice Alfredo

Cos’è la pazzia se non la normalità dei pazzi? A distinguerli poi, i pazzi. Le parole sanno essere importanti ma ci ingannano: quel che conta davvero è come ce le spieghiamo. E la sola spiegazione che conta davvero è come le viviamo. Sotto, sopra, sottosopra la pelle. Alfredo è pazzo per i normali, dal suo punto di vista invece per essere pazzo dovrebbe provare ad essere normale di quella normalità dei normali. I normali, i prevalenti. La parola inganna, come la mente, tende tranelli. Fra le due solo le conseguenze sono diverse.

Attraverso una forma rettangolare di alluminio-vetro-telo Alfredo scorge l’inverno, non sa com’è fatto, sa chi non torna, non sa perché. Dalla radiosveglia esce Vasco, da un angolo con la muffa, dice “eeeeeeh, cosa vuoi pretendere? Sì proprio te, sì che sei te”. Una lacrima è inghiottita dalle pieghe di rughe vecchie e ben motivate, una lacrima costata molto e pagata molto tempo fa.

Oggi ci sono le elezioni, Alfredo ha votato l’istinto. L’ha fatto vincere senza muoversi dalla sedia. Alfredo vede l’inverno tutte le volte che immagina la normalità, la verità, la falsità pianificata. Non prova brividi solo immobilità. Prima di tornare al punto, minuscolo e pesantissimo. Quello che nessuno vuole mettere alle sue frasi. Il freddo dell’inverno non esiste quando fanno male i pensieri. Scende la mano, scendono le palpebre, scende quel ch’era per filo e per segno. Non può far male il futuro.

Chi è nato poeta non può negarlo, non si può ritirare, può solo continuare a esserlo e a sembrare nessuno, uguale o un qualsiasi altro. Ma questo fatto per un poeta è marginale come lo sarebbero i tuoi acquarelli per Monet o la sceneggiatura di una puntata di Beautiful per Fellini. Al poeta interessa non sentire l’inverno quando è inverno, il che implica sentirlo, sentire gli inverni nell’inverno, ma non come te. Alfredo è poeta, ha bisogno di un dottore, di un oltre, di un inverno di quelli nostri normali. Una volta tanto.

Non dire non è nascondere, Alfredo non dice e non nasconde. Scrive. Qualche volta i pensieri cadono giù da lassù, da quel posto da cui vengono. Non si possono tenere in piedi. L’anticiclone che passa sotto la porta carezza le pagine. Alfredo si fa male, si procura dei tagli che nasconde. Scrive.

Vorrebbe sentirsi un esubero di sperma nel posto giusto al momento sbagliato, un po’ vecchio e deformato, ma l’istinto gli dice che non può sentirsi qualcuno. Oltre la forma rettangolare di alluminio-vetro-telo una pioggia battente di “se”. Sul lato opposto della stanza è appeso un quadro regalatogli da un amico pittore, dietro il quadro la scritta ”al mio amico tripolare”. L’omaggio, non alla vecchia presa telefonica di Telecom ma alla pazzia straordinaria, quella che batte persino quella meno esuberante a due poli.

Deve alzarsi dalla sedia Alfredo, per non morire lì, senza un amico o di noia, quella dei quattordicenni, per non morire di troppe cose non fatte ritrovate scavando nelle rughe dei ricordi, di freddo che non sente, di impossibilità strette nei pugni, di sorrisi che si è fatto promettere grazie alla poesia.

Deve alzarsi, schiodarsi. Ma fanno male i pensieri, dice Alfredo. Anche se qualcuno lo sentisse nessuno saprebbe cosa vuol dire. L’inverno non è in saldo, la sedia scricchiola ancora un poco. Alfredo si procura dei tagli per capire se è ancora vivo. Scrive.

Mi fanno male i sorrisi, dice Alfredo

Una giostra, nella stanza a cielo aperto che è questo quartiere di sogni ancora vivi, una giostra di sorrisi. Una giostra, ed è sempre il mio turno, il tuo o il turno di quell’altro che incroci spesso in metro tornando dal lavoro. Un’arteria verde, il parco. Qualcuno osserva girare le anime, composte e disorganizzate davanti alla felicità, da una finestra non troppo lontana. Qualcuno che spera per un “più di così” e si sente già in ritardo davanti al resto del tutto. Uno coi ricordi essenziali, spediti via come cartoline. “Ciao qui ci si diverte, a presto!”. Torce il collo e si sporge oltre il davanzale metallico, fiera dotazione della palazzina rimasta imperterrita negli anni sessanta, il piegamento dell’uomo è per distinguere i volti che girano forte nel parco senza tener conto della sua soddisfazione. Frasi indipendenti come stati che hanno lottato e vinto occupano il pensiero.

<<Ha un sorriso così solare>>.

<<Togliti quel sorriso dalla faccia>>.

<<Le ha tolto anche il più piccolo sorriso>>.

<<Ride bene chi ride ultimo>>.

Ci si mettono, in aggiunta, pure frasi sparse di Jim Morrison e quelle della scomparsa nonna Adele. Una gran confusione. Tutte a loro modo sagge, sceniche e incontrovertibili. L’apprezzabilissimo sforzo di circoscrivere un’oggettività e per il bene comune di renderla globale -magari immortale- non è sufficiente per renderla parte di lui: l’uomo non è pronto a conoscere e ad accettare ogni verità, né in qualunque momento. Le verità non sono giostre inceppate di sorrisi che possono entrarci dentro a tutta velocità. Il paragone sorriso-verità non regge.

L’aria di febbraio ghiaccia la punta del suo naso e la punta dei capelli neri argento alla finestra, la curiosità di Alfredo sopravvive al meteo contro. Ci deve essere una via di mezzo, pensa, un compromesso tra sorriso e verità e, quello, lui lo troverà. Deve. Per reggersi meglio a quello che gli rimane addosso della felicità che gli altri esibiscono esattamente come le sentenze, per convincersi di qualcosa e per farsi entusiasmare, prendere per le gambe febbraio e di forza capovolgerlo. “Alla tua età ormai…” un bel niente. Chi ha perso troppo le perdite non le accetta più. Se non lo sai non hai perso abbastanza, dice all’aria. E lui ha perso persone troppo buone contando solo sulla propria felicità. Che andava bene se c’era.

A cielo aperto un sorriso disinvolto come quei sorrisi che non hanno nulla da perdere, una ragazza con un berretto di lana prende in giro qualcuno che veste un giubbotto di pelle scura, un volto appare sfocato tra i movimenti delle polveri sottili. C’è uno sguardo impercettibile ma definitivo. C’è una cancellata arrugginita e un vecchio marciapiede, una signora fiera si protegge dalla città con un sorriso di quelli che hanno la stessa gravità di un’emorragia, una mamma strattona il bambino che vorrebbe trattenersi sull’altalena, è in ritardo nella sua tabella di marcia. Vieni da mamma. Ma certo. Con un piccolo sorriso sovrastimato da tutti i non intervenuti.

Anche da lontano i sorrisi li vede, li ricorda prima di qualunque verità, Alfredo. Quelli fermi indietro nel tempo, addosso a sé stesso, che ora si invidia. Sorrisi di tenerezza verso un gatto chiamato Aristotele per gioco, e poi di ammirazione verso l’alunno migliore della Quarta B che gli lasciava copiare i compiti di matematica, i sorrisi imbarazzati a chi gli faceva notare la prima peluria sotto il naso, quelli di speranza verso degli occhi nocciola che speranze non potevano dare, il sorriso fiero davanti alla prima busta paga tra le mani, quello urlato al primo giro della sua Ritmo. Stanno in fila, collezionati, grandi e piccoli, speciali e stupidi, con etichetta o sbeccati. Non si può dire che bastino. I sorrisi. La vita ha un altro passo, è molto più rapida della nostra capacità di goderci al collezione.

Forse per questo Alfredo chiude la finestra, pensando che sì, fanno i male i sorrisi. Il paragone sorriso-verità non regge. Se li guardi a lungo termine diventano spietati perché pochi, come le direzioni, come le possibilità. Diminuiscono sempre. Nel ricordo il sorriso da bere d’un fiato, così forte da procurarti una sbronza sulla realtà, da farti dimenticare tutto il tempo durante quel sorriso. Torna indietro o annulla tutto, adesso è troppo tardi. Alfredo quella finestra l’ha ormai aperta. L’ha infilato lui il gettone sulla giostra dei sorrisi di qualcuno. Fortunatamente. Perché alla fine il cessare di tutto quel girare gli permette di capire: il suo compromesso tra sorriso e verità è lui. Avrebbe dovuto essere lui, e ancora potrebbe.

Si sta come

con i doppi calzini

e tre maglioni

d’inverno

ma sul cuore

e una stagione non è.

Mi fanno male i sorrisi, dice Alfredo, al quadro rosso che ritrae la luna a metà. Sembra l’ingrandimento di un dettaglio e lo è. C’è uno sguardo impercettibile ma definitivo. Non riesce a non sorridere. Quel sorriso è una fitta, non sono neanche frasi interrotte, solo un pensiero accennato. La teoria di un’ipotesi.

Mi fanno male gli angoli che non ci son più, dice Alfredo

Il fruscio del copriletto dispiegato su di un letto a due piazze occupato da una persona sola non è romantico. Una sveglia si prepara a disturbare, le lenzuola grosse, gialle di tempo, sempre quelle. Il primo piede tocca terra, Alfredo lo conosce bene, è da una vita che se lo porta appresso. Ha capito che non è quello giusto per iniziare la giornata, forse uguale a tutte le altre giornate dopo Marina, ma pur sempre una nuova giornata. Ritira istintivamente il piede su, lo fa sparire sotto le lenzuola. Lo avvicina all’altro. Lo stringe all’altro. Li incastra nella perfezione del silenzio. Aspetta che la sveglia suoni e gli presenti una pur sempre nuova giornata. Senza qualcosa, senza qualcuno.

Alfredo stringe le gambe, trema, un povero vecchio, dentro un letto a cui non troveresti un aggettivo. Il freddo della mattina non c’entra. Alfredo ha solo un altro piede per iniziare la giornata ma sa che anche quello è sbagliato, che le giornate sono come scarpe e non sono fatte per tutti i piedi. Che le forme non le cambiamo noi, ma Dio se ci credi. Visto da su, dall’altezza di quelle pale impolverate attaccate al soffitto sembra un involtino con qualche piega in più, fermo, come infilzato da uno spiedino. Uno spiedino che si chiama solitudine. Siamo abituati a pensare che la solitudine sia la mancanza di qualcuno o la sua lontananza. I nipoti di Alfredo lo chiamano di tanto in tanto, un gelato al parco, poi c’è la cena dai figli e un teatro da sopportare più che da pagare, proprio come e sempre stato, e sei euro al fioraio del cimitero. Basterebbero queste cose a colmare la sofferenza se la sofferenza solo questo. Ma è di più. Dettagli macroscopici. È quando nessuno è in grado di capire il tuo dolore, e il perché fai l’involtino a letto e non vai a prendere il giornale ora che sei in pensione e hai tutto il tempo. È quando spacchi un vetro con un pugno solo per farti male e nessuno ha capito che non volevi essere difeso e nessuno ha capito da dove quel fendente è partito.

Strano maggio questo, non si salva neanche la primavera. Il fruscio del copriletto detta il ritmo del tempo. Quelle parole “Alfre’ domenica andiamo a portare la marmellata fresca a Gina?”, ma che ricordi stupidi bellissimi, quelli di una domenica che non c’è mai stata davvero come doveva andare. È inghiottita per sempre, il cuore fa quello che deve. Alfredo si stringe all’angolo, non fatto di mura, quell’angolo di labbra nascondevano davvero. Ora nel ricordo. Può essere quasi nessuno senza che qualcuno reclami. Si sente sopra quelle labbra. Protetto. Al passato.

In quanti centimetri di vita ci si può perdere, e quanta differenza non si può più fare. Senza credere, senza capire, senza nemmeno ammettere il dolore che è difficile da essere riconosciuto. Capito. Respiriamo tutti l’aria della stessa stanza, prendiamo una mano se c’è, afferriamo una spalla se disponibile, chiudiamo una chiamata. Oppure attacchiamo noi stessi, gli unici rimasti. In quanti centimetri maggio si porta via la primavera che pensavi ti spettasse.

Senza capire, senza risolvere, vorremmo tutti cambiare stanza. Invece siamo qua. Insieme ad Alfredo, angolo diverso. Il fruscio del copriletto, qualcosa di spaccato di nascosto solo per farci male, giornate da non iniziare. Salutate tutti Alfredo.